Il XVIII secolo si apre con nuovi conflitti armati. Questa volta a insanguinare la terre del nord Italia è la guerra di successione spagnola che vedeva contrapposte Austria, Baviera, Francia, Spagna e Savoia. Venezia, padrona del territorio bresciano, resta neutrale. D’altro canto non possiede né la forza né truppe tanto numerose da poter fronteggiare i più potenti stati europei; la sua scelta di neutralità ne consentirà la sopravvivenza ancora per quasi un secolo, ma non farà che prolungare il progressivo suo declino, che s’andrà trasformando in una lenta agonia.
Le scorrerie delle soldataglie imperiali in bassa Valle Trompia lasciano il segno: passato il colle di S. Eusebio i Germanici razziano e devastano Nave e Concesio (dicembre 1703). Annota lo storiografo Alfonso Cazzago: «Il rubare dei tedeschi era più universale, perché vivevano sul nostro e non avevano paghe; quello dei francesi era più insolente: uomini intolleranti, specialmente con le donne».
I conflitti lasciano strascichi, povertà e malattie. Di gran lunga maggiore è il numero di morti a causa di morbi portati dagli stranieri rispetto a quello dei militari caduti sul campo. A soffrirne sono soprattutto le popolazioni, in Valle Trompia già cronicamente a corto di viveri. La crisi demografica perdura durante tutta la prima metà del secolo: la peste del 1630 ha tracciato un solco gravissimo, dimezzando un’intera generazione. Le valli risentono in modo particolare di tale stagnazione demografica. Non solo: a versare in difficoltà è l’intero apparato produttivo, le miniere vengono in parte abbandonate, le officine d’armi languono. Se Tiburzio Bailo nel 1695 poteva ancora fornire alla Serenissima 120 cannoni, nel gennaio 1733 il prete Giacomo Scaluggia, curato a Gardone, segnalava che le maestranze della valle erano tormentate da fame estrema e nudità vergognosa sicché «…erano stati forzati molti di questi artefici a fuggir disperati et andar nella Savoja a servire e lavorare canne da guerra nella nuova fucina fabbricata da quel principe…». Venezia cerca di porre rimedio: nel 1735 permette a due fabbriche gardonesi di produrre 6.000 fucili per l’Austria, come tramanda l’Odorici nella sua storia bresciana (IX 327), e in seguito favorirà ulteriormente la produzione armiera. Il re di Savoia Carlo Emanuele III nel 1753 emana un invito ai pastori delle montagne bresciane a trasferirsi con le loro greggi nelle terre da lui governate. Le braccia e gli ingegni delle nostre genti diventano alimento per stati più prosperi: significativo della marginalità della Valle Trompia è che nell’estimo mercantile del 1750, commissionato da Venezia, essa sia esclusa, per il vero in buona compagnia delle altre due valli bresciane, e con l’eccezione delle terre di Nave, Bovezzo e Polaveno ivi menzionate. Si legge nel capitolo degli “estimati” di Nave: «1 vende formaggio et altri commestibili e traffica in biava, 1 traffica in biava e vende pochi commestibili…4 esercitano in un folo proprio per far carta, 2 esercitano in foli per contro di negozianti di Brescia, 2 lavorano di ferro in una fucina, 1 molinaro…2 fratelli speciali di puro medicinale, 1 traffica qualche poco di carbone, 4 zavatini, 3 marengoni, 1 maresciallo di pura arte, artisti: un medico dell’ultima classe; 3 nodari; 2 sarti dei contadini. Il comune possiede e dà in affitto: una osteria e beccarla una prestineria e due molini con ruote tre et acqua incertissima» (Abeni, IV 122). Tutto ciò è assai interessante in quanto ci dice di quanto l’intervento diretto delle municipalità fosse diffuso e incidesse nell’economia generale assai più che ai tempi nostri. I Comuni erano entità per lo più chiuse e i traffici, gli scambi, relativamente ridotti. L’autarchia più o meno assoluta manteneva radicate le genti che finivano per fondersi in un indissolubile connubio con la loro terra. Ove tale radice attecchiva con più vigore in virtù di una più spiccata vocazione agraria (come nei centri dell’alta valle) o di un maggiore isolamento geografico (come a Lumezzane) si riscontrava un certo campanilismo che non di rado si traduceva in aperta rivalità. Si trattava comunque di una “guerra tra poveri”: già dal 1698 i rettori di Brescia avevano proibito l’esportazione di castagne e marroni dal momento che in valle molte persone si nutrivano per mesi di sole noci e castagne, il “pane dei poveri” (Abeni IV 127). Dal canto loro i Comuni si comportavano in maniera generalmente responsabile, facendo fruttare al massimo le loro seppur povere risorse, fossero esse anche solo prati o pascoli, boschi da tagliare o mulini da gestire, miniere da sfruttare o cacciagione da prelevare nelle aree demaniali. Le attività venivano periodicamente censite e i beni inventariati. Tali inventari spesso comprendevano anche i beni della Parrocchia, e a sua volta la Diocesi e le Parrocchie provvedevano a censire minutamente le loro proprietà.
In un contesto di penuria e povertà era peraltro inevitabile che si scatenassero reazioni disperate come quella del 1764 quando i Valtrumplini calarono su Brescia reclamando cibo. Essi occuparono Porta Pile e chiesero al rettore veneziano Grimani di essere sfamati. Il desiderio fu in effetti esaudito ma i caporioni della protesta furono tutti presi, torturati e giustiziati, i loro corpi appesi alle forche come monito.
Le autorità imposero severe norme contro l’accattonaggio e il vagabondaggio. I forestieri dovevano essere garantiti dagli originari che li ospitavano, e se indipendenti dovevano comunque denunciare la loro presenza sul territorio di un altro Comune presso la locale cancelleria. I nobili tuttavia si dimostravano anche tolleranti, lasciando talvolta bivaccare gli indigenti presso i loro portoni o, secondo un senso di cristiana carità, via via affiancato da civile filantropia nel “secolo dei Lumi”, offrivano assistenza e soccorso ai più miserabili. I diritti civili erano esercitati solo dagli “originari”, essendo gli ospiti e i forestieri gente che costava al Comune più di quanto non producesse.
Dopo un ventennio di timida ripresa nel 1775 tornò la carestia e i Trumplini tornarono a fare razzìe nella Bassa (Abeni IV 140-141). Da ricordare furono pure le annate siccitose, quelle oltremodo fredde, e le perniciose alluvioni, celebre quella dell’agosto 1757 che colpì in modo particolarmente duro Tavernole e Brozzo.
Nel corso del Settecento non mancarono tuttavia anche in Valle Trompia gli aspetti di progresso: molte furono le chiese che in questo secolo furono costruite, arricchite o ampliate, ad esempio basti citare quella di Villa-Cogozzo a opera di G. B. Marchetti, architetto orobico pure attivo presso la fabbrica del duomo nuovo di Brescia (prima metà sec. XVIII), quella di Bovegno (1737) e quella di Collio (1785). Bovegno poi proseguì nell’impulso edilizio di cui si è fatto cenno nel capitolo sul Seicento, furono ricostruiti alcuni molini e nel 1756 fu acquistata la farmacia. Nel 1718, superata la crisi acuta, venne riaperta la miniera Torgola. Per un approfondimento sulla consistenza e produzione dei “medoli” si veda la dettagliata relazione dell’ingegnere bovegnese Matteo Gatta al barone Sabatti, estensore di una corposa inchiesta su tutte le attività produttive della Prefettura (in “Bovegno Val Trompia” pagg. 89-91).
L’istruzione si sviluppò e si diffuse soprattutto grazie ai preti che supplivano la carenza delle autorità civili; in ogni centro erano inoltre censite le ostetriche e la mortalità infantile diminuì. La povertà non impediva il rispetto della tradizione secondo i principi della morale cattolica, né l’esercizio di una silente dignità: la domenica non si lavorava, i trasgressori venivano puniti. Gli antichi statuti prevedevano che nei dì di festa e nei periodi natalizio e pasquale non fossero celebrati i processi.
Il secolo si chiuse con il tramonto della Repubblica Veneta, definitivamente abolita nel 1797, ma da tempo in declino. Come si è accennato e vedremo oltre tale declino si era manifestato anche in Valtrompia, sebbene Venezia avesse sperimentato alcune misure di alleggerimento fiscale e di pur limitata liberalizzazione dei commerci. Al posto della Serenissima si instaurava la Repubblica Bresciana, presto incalzata dalla reazione austro-russa e poi dal giogo napoleonico. Gli eventi, in questa fase terminale, si succedettero con vitale quanto drammatica rapidità, quasi a voler scuotere dal torpore dei decenni il XVIII secolo che pure era iniziato con l’udire il tuono dei cannoni.