LA PRODUZIONE ARTIGIANALE DELLA CALCE
L’estrazione della pietra a vari scopi e utilizzi è sempre stata una componente fondamentale nelle comunità montane, legata in modo particolare all’attività edilizia, nonché alla tipologia abitativa emergente nel bacino dell’Alta Valle Trompia.
Mentre le abitazioni a corte o cascine della Media e Bassa Valle venivano prevalentemente costruite facendo ricorso ai mattoni o laterizi vari in cotto, quelle dell’Alta Valle vedevano una spiccata preminenza nell’impiego di pietra e legno. Venivano costruite su un notevole basamento in pietra locale con travature e tetto in legno e copertura in coppi o lastre di pietra, anche se non è difficile trovare ancora edifici con la copertura in ‘scandole’ di legno[1].
Era comune la pratica dell’estrazione delle pietre da cava a scopo edilizio, ma in modo particolare largamente diffuso era l’ormai estinto processo artigianale per la produzione della calce viva, attuato mediante l’antico metodo della cottura della pietra calcarea attraverso le calchére o calcare. Trattasi di fornaci nelle quali si cuocevano le pietre; diffusissime in tutta l’area dolomitica e prealpina in quanto la materia prima, la roccia calcarea, è sempre di ottima qualità, il prodotto finale veniva a volte commercializzato in luoghi lontani, ma principalmente serviva per le necessità locali. Solitamente vi era una calchéra in ogni comunità; la qualità del prodotto era direttamente proporzionale alla qualità della materia prima e all’abilità e all’esperienza di colui che vi lavorava[2].
Non è facile individuare i resti delle calchére, ormai assorbiti dalla vegetazione e men che meno fabbricarne di nuove: la montagna deve essere di natura calcarea con rocce contenenti consistenti percentuali di carbonato di calcio (CaCo3), ricoperta di castagni e di faggi e con pendii non troppo scoscesi per consentire di ricavare nei suoi fianchi gli spazi pianeggianti necessari a costituire l’unità produttiva[3].
Le calchére sono per praticità addossate al terreno per almeno un terzo; hanno forma a tino con diametro variabile dai tre ai cinque metri, altezza da due a quattro metri, muratura portante a secco composta da pietre resistenti al fuoco e munita di due aperture una sulla sommità e una alla base consistente in una portella larga un metro e non più alta di due metri sostenuta da un’architrave. Essa serviva a trasportare all’interno il pietrame calcareo, il combustibile necessario ed estrarre la calce ad operazione ultimata [4].
Schema di Calchera
fonte: www.lagodigardamagazine.it
Per produrre la calce si raccoglievano sassi di roccia calcarea, le ‘prede’, in apposite zone di cavatura definite in toponomastica come ‘cave’ o ghiaioni detti ‘gerre’: le dimensioni non dovevano essere eccessive per favorire la più facile lavorabilità nella sistemazione all’interno della fornace; inoltre si provvedeva ad accumulare fascine di legname nelle immediate vicinanze per poter alimentare continuamente la combustione per tutto il periodo necessario alla calcinazione delle pietre [5].
La gestione della calchéra era affidata ad una ‘compagnia’ o ‘società’ cioè un gruppo di quattro o cinque persone delle quali solamente uno era un vero ‘calcheròt’ cioè un artigiano specializzato nelle tecniche costruttive della calchéra; gli altri erano semplicemente dei manovali o prestatori d’opera che collaboravano nella costruzione e nel controllo della combustione. Spesso il calcheròt veniva interpellato solamente per la realizzazione del ‘volt’ (volta) della fornace che doveva sostenere tutto il peso delle pietre destinate alla produzione e come tale veniva pagato ad ore per il tempo strettamente necessario, dopodiché il resto del lavoro veniva condotto dai componenti della compagnia; interessante rilevare che il termine ‘compagnia’ veniva anche utilizzato per definire le squadre operanti nei forni fusori della valle nonché nell’attività mineraria locale (es. compagnie di mineranti).
L’accumulo di legname per la combustione (il lavoro più lungo e faticoso) iniziava in autunno e a volte si protraeva fino a gennaio inoltrato. Si preparavano fascine di circa dieci chili e per far funzionare una calchéra ne potevano servire più di 1500; una volta accatastata la legna nei pressi della calchéra si procedeva al recupero delle pietre necessarie.
La calchéra poteva essere di un altro proprietario e allora era necessario pagare l’affitto per l’utilizzo (di solito una percentuale di calce prodotta). La parte fissa della calchéra era detta ‘camicia’ e la prima operazione di riempimento era la costruzione del volto che lasciava uno spazio sufficiente a realizzare la combustione delle fascine alla base. Una volta costruito il volto si procedeva al riempimento, incastrando pietre calcaree di dimensioni sempre più piccole fino a giungere alla bocca superiore dove venivano raggruppate in un mucchio semi conico che veniva ricoperto da terra bagnata (malta) e fogliame in modo da creare uno strato di copertura compatto per proteggere la combustione dagli agenti atmosferici, infine venivano praticati dei fori nella copertura per favorire la circolazione dell’aria.
Per caricare una calchéra erano necessarie quattro persone che lavorassero 12 ore per un giorno e mezzo; nella sottostante camera di combustione venivano depositate le fascine mediante un’apertura appositamente lasciata a livello del terreno; in verità l’apertura risultava sopraelevata rispetto alla base della camera di combustione, più bassa per consentire di infilare le fascine più agevolmente in quanto cadevano ‘dentro’ la camera. A questo punto è doveroso precisare che, a volte, le stesse calchére venivano definite con il termine di ‘camere’ prorio in relazione alla specifica porzione della fornace.
Alcune calchére erano munite di portelli inferiori per consentire lo scarico delle braci che si accumulavano durante la combustione, ma tali calchére erano di dimensioni più sostenute e quindi bruciavano per molti giorni; diversamente le fascine potevano essere sollevate dal suolo mediante due sbarre metalliche trasversali.
Quando la calchéra veniva accesa, era necessaria una presenza costante per attizzare e sorvegliare che la combustione procedesse con regolarità, nonché per levare la brace in eccesso: operazioni da fare con celerità per evitare di far perdere gradi alla combustione.
La durata della cottura variava a seconda di vari fattori: il clima, il tipo di legname impiegato, la qualità della costruzione e le dimensioni della calchéra. Mediamente per una calchéra da 120 quintali ci volevano tre giorni e mezzo. Si poteva capire dal colore delle fiammelle che fuoriuscivano dalle fessure dei sassi quando era giunta l’ora di chiudere la bocca di alimentazione dopo una buona carica finale di fascine. All’inizio le fiammelle erano rossicce e al termine della combustione diventavano azzurrognole o biancastre; anche il colore del fumo era determinante: prima era bianco, perché smaltiva l’umidità, poi cominciava a diventare nero dopo una pausa senza fumo, fino a tornare a schiarirsi e a cessare poi del tutto; anche le pietre cambiavano colore fino ad essere bianche.
A questo punto si sigillava ogni apertura per evitare che l’aria penetrasse e deteriorasse la calce sgretolandola e si lasciava tutto fermo per tre giorni in modo che si raffreddasse.
Questo processo era seguito giorno e notte dai componenti la compagnia che, a turno, stazionavano alla calchéra sotto un riparo rudimentale costruito a ridosso della bocca di alimentazione. Le madri o le mogli provvedevano al rifornimento dei viveri necessari. Quando la calchéra era raffreddata, si abbattevano l’apertura murata e la parte alta, cominciando a tirare fuori le pietre calcinate a partire dalla sommità fino all’abbattimento del vólt mediante il piccone. I pezzi si raccoglievano a mani nude e la calce bruciava la pelle rendendo il lavoro faticoso e pesante, ma la condizione peggiorava se si lavorava durante le giornate ventose in quanto la polvere sollevata dalla calce finiva negli occhi e a contatto con l’umidità li faceva bruciare e irritare.
Resti di calchera in loc. Caregno
Solitamente la calce prodotta veniva venduta subito, anche perché non ci si poteva permettere che la pioggia la rovinasse nell’attesa dei compratori, pertanto era necessario che le prenotazioni coprissero già il prodotto ancora prima di iniziare la produzione. Oltre alle imprese edili anche ogni famiglia faceva la sua scorta di calce per vari utilizzi: imbiancare, disinfettare le stalle e gli ambienti, preparare malte o il verde rame per le viti. Questa scorta veniva conservata in una buca scavata direttamente nel terreno, la ‘büsa dè la calsìna’, nella quale i blocchi di calce viva venivano mescolati all’acqua[6], dando origine alla calce spenta.
Per meglio definire il processo nella sua completezza a questo punto è doverosa una parentesi tecnica. Ciò che viene chiamata comunemente ‘calce spenta’ non è altro che il trattamento con acqua dell’ossido di calcio (o calce viva) ottenuto calcinando a 900°-1.000° le pietre ricche di carbonato di calcio e la reazione che si produce è esotermica cioè sviluppa calore anche fino a 300 gradi.
Aggiungendo, in un secondo tempo, ancora acqua all’idrossido di calcio, si ottiene il ‘grassello di calce’ usato per preparare la malta. Tecnicamente quindi la malta non è altro che calce spenta mescolata con sabbia e acqua e serve per legare i mattoni e le pietre degli edifici. Dopo un certo tempo, infatti, fa presa, cioè indurisce perché l’idrossido di calcio, combinandosi con l’anidride carbonica dell’aria si trasforma in cristalli di carbonato di calcio che legano i materiali da costruzione; aumentando ulteriormente la diluizione dell’idrossido di calcio, si ottiene invece il ‘latte di calce’, un liquido biancastro usato per imbiancare e disinfettare[7].
La calce, questo prezioso materiale conosciuto nelle sue qualità sin dal tempo dell’Impero Romano, ha sempre costituito parte integrante della povera economia di questi monti e il bianco fumo delle calchére, accanto a quello del poiàt per secoli ha caratterizzato il panorama forestale, filtrando attraverso il fogliame dei boschi e tracciando una sottile linea diretta in cielo, quasi ad unire ciò che si trova più basso alle lontane profondità siderali.
Calchere industriali ristrutturate a Sarezzo
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[1] F. POLETTI, L’architettura rurale in Valle Trompia, in G. E. V. T. (Guardie Ecologiche Volontarie) Comunità Montana di Valle Trompia, ‘Alberi monumentali e dintorni’, Stilgrafo, Brescia, 1999, pp. 14-15.
[2]www.lagodigardamagazine.com
[3] www.magicoveneto.it/arte/calchéra/calchéra.htm
[4] www.invaltrompia.it/rubriche/aiale_dosso.htm
[5] www.lagodigardamagazine.com.
[6] E. RENZETTI, Le calchére dell’alto Garda e Ledro, Museo civico, Riva del Garda, 1994.
[7] C. GIZZI, Chimica e Mineralogia, La Scuola, Brescia, 1971.