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Il reddito garantito alle comunità di montagna da una oculata gestione del patrimonio boschivo ha fatto sì che nei secoli si sia strutturato un lungimirante sistema per lo sfruttamento dei beni forestali disponibili per ogni nucleo abitativo. Legname da costruzione, legna da ardere, castagne, foglie secche per le lettiere delle stalle erano tutti prodotti ricavati dalle ‘squadre’, particelle di bosco sfruttate a rotazione ventennale o trentennale, assegnate, come del resto ancora oggi, mediante un’ asta pubblica all’inizio di aprile.
.Molti sono gli strumenti collegati al bosco, al legname, al legno come materiale duttile, all’ingegno contadino con il quale tutto si fabbricava, dalle posate ai piatti, dai tetti delle case fino agli altari delle chiese, in un ciclo secolare che continua ancora oggi.
Il taglio della legna poteva iniziare solamente dalla festa di S. Michele, il 29 settembre. Gli antichi statuti locali prevedevano aspre pene pecuniarie per chiunque trasgredisse tale norma e i ‘Campari’, eletti dalle singole vicinie, avevano il compito di farla rispettare[1]. L’approccio al bosco iniziava dunque con il periodo del taglio, rispettando le fasi lunari, in quanto era solo nella fase di luna calante che veniva garantita la maggiore qualità del legname prodotto. L’abbattimento avveniva tramite scuri e seghe a due manici dette ‘rasèghe’ o Rasegòcc; a volte tale termine passava a definire la segheria ovvero l’opificio che si occupava a livello industriale della produzione di legname da costruzione.
Gli alberi abbattuti venivano sottoposti all’operazione di ramatura e alla successiva suddivisione nelle diverse pezzature o qualità, ove la legna più sottile, detta ‘minüda’, veniva legata in fascine con rami flessibili di nocciolo detti ‘stròpé’ e accumulata in cataste; la locale toponomastica conserva ancora termini di questo genere volti a definire i luoghi dove di preferenza si svolgeva l’operazione di accumulo della legna sottile e la preparazione delle strope come ad esempio Stropertol, o in cataste dette ‘mede’ o ‘mese’, ma anche Pile consistenti in grossi mucchi di fascine o ingenti quantitativi di legname.

Negli intervalli del lavoro venivano consumati magri pasti, con polenta e formaggio, acqua di fonte e frutti di stagione; nei giorni di pioggia ci si rifugiava nelle vicine cascine dove si affilavano asce, seghe, roncole (dette anche ‘podècc’), si fabbricavano manici e si apprestavano i materiali che sarebbero serviti per il trasporto della legna da ardere e dei tronchi destinati a lavori di falegnameria. Per spezzare i ceppi (‘sòc’), troppo duri ed ingombranti per consentire un agevole trasporto, venivano utilizzati i cunei ( Cugni): era un duro lavoro, perché si doveva scavare con il piccone e portare alla luce le radici da spezzare una ad una.
Con un lavoro di mesi, che ogni anno si ripeteva in luoghi diversi, quasi tutta la legna era trasportata attraverso teleferiche ( fili palorci), trascinata sui pendii mediante arpioni metallici fino ai punti di raccolta dove attendevano i carri, che prendevano il nome di ‘preàle’ se erano di piccole dimensioni oppure di ‘bare’ se più grandi e trainati dai buoi, a volte si faceva anche uso di slitte. Ogni cascina aveva la sua scorta di legna da ardere e altrettanto legname era destinato alla produzione del carbone di legna, che per secoli ha alimentato l’industria siderurgica dell’alta Valle Trompia[2].

 

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Slitta per la legna

La produzione di carbone era perseguita con tenacia e spesso era effettuata dagli stessi taglialegna che utilizzavano così direttamente il prodotto del precedente lavoro; questo significava che alla chiusura del ciclo del taglio boschivo si univa quello della produzione del carbone, attività che si poteva svolgere prevalentemente durante la stagione primaverile o estiva, in quanto implicava una lunga permanenza all’aperto per diversi giorni e notti.
Gli statuti di Valle Trompia del 1576 affermavano: “sarà lecito incantar legne soltanto per ardere”, tuttavia vietavano di cedere in affitto e di tagliare la legna ‘idonea per fare carbone’.
Fare il carbone non era cosa facile. Il carbonaio doveva prendere in affitto una porzione di bosco comunale o privato, dove la legna era stata tagliata da poco e ammucchiata appositamente in luoghi prestabiliti chiamati arali (in dialetto ‘ial’ o ‘ral’); si trattava di uno spazio pianeggiante leggermente convesso per favorire lo scolo dell’acqua piovana ed evitare dannosi allagamenti dell’area; era situato in posizione riparata dalle correnti e al Vac, cioè in luogo ombreggiato affinché la legna rimanesse umida e bruciasse lenta. L’esperienza insegnava che il carbone si doveva fare nei posti già utilizzati, nelle arali( aràl o aiàl) vecchie dove già si trovava la terra nera che poteva andare bene. Rubare la terra dalle arali altrui era un vero reato severamente punito dalle disposizioni degli statuti comunali, i quali recitavano: “persona alcuna non ardisca a levar ne far levare le terre d’arali dove si cuoce overo è solito cuocere il carbone” Inutile rimarcare la frequenza di tali siti nella geografia locale e la loro influenza sul paesaggio e sull’economia, al punto che Aiale è pur il nome di un centro abitato sulla strada provinciale in comune di Pezzaze.

 

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Allestimento del Poiàt

Una volta predisposto l’arale occorreva allestire il ‘poiat’, la catasta di legna da trasformare in carbone. La legna forte, come faggio, rovere e carpino forniva il carbone migliore particolarmente adatto per i forni fusori, mentre per il funzionamento delle fucine di ferro andava bene anche il carbone prodotto con il legname di castagno o di nocciuolo.
La produzione del carbone a scopo industriale in Valle Trompia è continuata fino all’immediato secondo dopoguerra, fino a quando l’impiego di carbon Coke nei forni, unitamente all’introduzione dell’uso di idrocarburi nel funzionamento delle fornaci impiegate nelle fucine di lavorazione, fece definitivamente tramontare questo genere di attività.

 

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Copertura del Poiàt

La costruzione del poiàt doveva iniziare da un grosso tronco di 30 o 40 centimetri di diametro piantato al centro dell’arale. Attorno venivano disposti i ceppi più piccoli e corti, tagliati con il ‘rasegòt’ o eventualmente suddivisi con la scure in pezzi più sottili detti ‘stele’ alla base del palo principale veniva lasciata la ‘casetta’, un cunicolo dove doveva essere inserita una fascina di legna più sottile che doveva servire da combustibile e da comburente permettendo l’ingresso dell’aria all’interno della catasta; mano a mano che la catasta si allargava, doveva diminuire lo spessore della legna. Da ultimo si mettevano i rami più sottili e lunghi e venivano utilizzate le radici per rendere la catasta tondeggiante. Infine si faceva la pelle del poiàt ricoprendolo con uno strato di rami di abete detti Dazé a loro volta ricoperti di terra nera affinché tutte le fessure fossero tappate e la combustione avvenisse in modo lentissimo. Con dei rami appuntiti si praticavano alcune fessure perché il fuoco fosse richiamato gradualmente verso l’esterno e si saliva sopra il poiàt per estrarre il palo centrale. Questa operazione consentiva di creare uno sfiatatoio per favorire la circolazione dell’aria necessaria per la combustione.

 

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Il carbone di legna

Finito questo procedimento si appiccava il fuoco alla fascina nella casetta (operazione fatta di notte e in assenza di vento) aggiungendo anche dei frammenti di legna detti ‘stéle’, che venivano calati dall’alto in modo che la legna alla base cominciasse ad ardere.
Ci volevano 24 ore affinché il fuoco arrivasse fino all’imbocco superiore, quindi bisognava preoccuparsi di smorzare le fiamme con un metodo particolare: si univano acqua e fango in un impasto che veniva applicato sull’esterno del poiàt in modo che l’umidità non lasciasse respirare troppo la fiamma che avrebbe incenerito la legna invece di carbonizzarla[3]. Dopo 12 ore bisognava ‘imboccare’ il poiàt, perché nel mezzo questo calava continuamente, e quando la terra si infossava, bisognava rimuoverla e aggiungere altra legna sottile e secca per evitare che si aprissero altre fessure pericolose. Questa operazione veniva fatta ogni 12 ore per 6 o 7 giorni. A questo punto il carbone cominciava a formarsi, ma bisognava stare all’erta, affinché non si verificassero malfunzionamenti nella combustione dovuti alla cattiva aerazione, alla pioggia o alla posizione del poiàt (più esposta sul lato a valle e quindi meno umida rispetto al lato montano)[4].
La fase di preparazione del poiàt durava dai 3 ai 6 giorni, a seconda degli uomini impiegati e delle dimensioni della catasta. Per tutto il tempo della cottura (che poteva arrivare fino a 19 giorni) il poiàt doveva essere sorvegliato attentamente da almeno due uomini per tutta la durata della combustione: mentre uno vegliava l’altro riposava e dormiva in un riparo di fortuna fabbricato in prossimità. Bisognava avere sempre a disposizione alcuni secchi di acqua per estinguere un eventuale incendio che avrebbe incenerito tutta la catasta, inoltre la pioggia doveva essere fatta defluire velocemente affinché la combustione non si bloccasse.

Quando la catasta si era dimezzata ed il fumo diventava di colore azzurrognolo il procedimento era concluso. Il carbone si lasciava raffreddare si lasciava raffreddare per 3 o 4 giorni e poi veniva riposto nei sacchi detti ‘bösache’ o ‘busache’ del peso di 40-50 kg. Questi venivano trasportati nel fondovalle da alcuni ragazzi detti ‘purtì’ che avevano in spalle le ‘bastine’ o Baste, cuscini ripieni di paglia e trattenuti da una cinghia che girava sulla fronte; la polvere di carbone che filtrava dai sacchi cadendo addosso ai trasportatori durante il cammino, li rendeva più neri del carbone stesso. Ogni quintale di legna forte dava 25 kg di carbone, ogni quintale di legna di castagno dava 1 kg di carbone.
In relazione al recupero e alla valorizzazione di questi luoghi è da segnalare la lodevole iniziativa della Comunità Montana di Valle Trompia che in collaborazione con il Comuni interessati di Pezzaze, Polaveno e Valtrompia turismo ha ripristinato il Sentiero dei Carbonai nella Valle delle Selle di Pezzaze e il Sentiero delle Sorgenti e dei lupi a San Giovanni di Polaveno; lungo i quali si possono ammirare diverse fasi della preparazione del poiàt minuziosamente descritte da pannelli informativi.
Mentre il sito del Museo etnografico di Lodrino conserva numerose tipologie di attrezzi e materiale utilizzato nel taglio del bosco.

 

 


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Ricostruzione a scopo turistico del Poiàt

 

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[1]http://www.comunedisarezzo.it/storiasarezzo126.htm
[2] http://www.museoetnografico.it/il_bosco,slitte_e_carri.htm
[3]http://www.comunedisarezzo.it/storiasarezzo127.htm
[4] http://www.scalve.it/museooschi/16CARBONAI.htm

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