Data la povertà del sistema agricolo che garantiva la sussistenza di una famiglia esclusivamente basata sul coltivo, si doveva ricorrere all’allevamento di qualche capo di bestiame e l’alimentazione degli animali diventava un assillante problema quotidiano. Se si escludono i grandi proprietari che potevano sfruttare i pascoli più vasti, la fame di pascolo era un problema reale che gli antichi, che usi e consuetudini potevano solo in parte colmare[1] .
L’allevamento degli ovini o quello dei suini dei polli, conigli e galline era ed è ancora diffuso; ma la parte del leone la faceva l’allevamento dei bovini la relativa produzione di latte, burro e formaggi in genere.
Il bestiame nei mesi estivi stazionava in montagna, in quello che viene chiamato ‘il pascolo stabile’, o Stabìl, Stabo, Stabul, ci indicano con chiarezza; diversamente il bestiame trovava rifugio nelle varie stalle, Stalletti , Stallino. La Zangola, foto S. Magnolini
Tipico luogo di pascolo stabile era la malga, composta da un riparo per le bestie e da un locale per la lavorazione del latte e il soggiorno del malgaro o malghese detto anche Tugnì.
Questo edificio era chiamato Bait o Baito vicino al quale poteva esserci una pozza o un abbeveratoio chiamato Albio o Brègna; fuori dal recinto il terreno era coperto dagli escrementi delle mucche che vi sostavano e per la sua eccessiva ‘fertilizzazione’ veniva chiamato Gràs.
Il locale destinato alla lavorazione del latte era detto Casinetto o Cadènèt; in esso il latte veniva portato ad alte temperature 12 o 24 ore dopo essere stato munto in modo che la panna affiorasse in superficie.
Con una larga ciotola di legno (‘spannatola’) si toglieva la panna destinata a finire nella zangola (‘ornèl’) per diventare burro nel giro di una decina di minuti, durante i quali veniva continuamente agiata e sbattuta per poi essere versata in appositi stampi di legno. Il latte invece veniva riscaldato a 35°-39° e agitato con un’asta di legno per uniformare la temperatura. Si aggiungeva il caglio che provocava la coagulazione della caseina in 35/45 minuti, allora la caldaia veniva tolta dal fuoco per 30 minuti circa per consentire una completa coagulazione. Il coagulo che si formava veniva sminuzzato e rimosso, mentre la temperatura veniva nuovamente portata a 50° molto lentamente.
A questo punto la cagliata veniva lasciata riposare per 15/20 minuti, poi il casaro immergeva le braccia nella caldaia comprimendo tutti i granuli in un’unica massa raccogliendoli nella ‘mastèla’. Quindi immergeva nella caldaia un telo di canapa e lo riempiva manualmente di massa caseosa. Questa veniva poi compressa su un piano di legno inclinato e scanalato detto ‘spersùr’ dove veniva stretta in una fasciatura di legno detta ‘faséra’; dopo qualche giorno di asciugatura il formaggio veniva tolto dalla faséra e portato nel locale di deposito, dove il casaro provvedeva in una ventina di giorni sia alle tre o quattro salature che a rivoltarlo giornalmente fino depositarlo nello scantinato per una stagionatura che doveva durare almeno un anno. La qualità e la quantità del prodotto dipendevano dall’esperienza del casaro: diversamente si rischiava di ottenere un prodotto scadente. Con il latte intero, cioè quello cui non era stata levata la panna e con il medesimo procedimento si preparavano le formaggelle grasse, che erano consumabili già dopo pochi giorni[2].
Terminata l’estrazione della pasta di formaggio si lavorava il siero, cioè quello che era rimasto; esso veniva portato a 80° con l’aggiunta del latticello avanzato della produzione del burro. Mano a mano che il siero si scaldava, con la solita ‘spanaröla’ si levava la schiuma comprensiva anche di impurità e resti di combustione del sottostante fuoco fino a che in superficie non affiorava una sostanza bianca ancora contenente grasso chiamata ‘Fiurìt’ con il quale veniva prodotta la ricotta e che levato con il mestolo veniva scolato in sacchetto di tela e appeso a una trave perchè spurgasse. Per ottenere un buon risultato il ‘fiurìt’ doveva essere lasciato nel paiolo e addizionato a del siero acido che il casaro conservava in un barilotto o una bottiglia di vetro tenuti sempre pieni. A contatto con il siero e alla temperatura di 75° l’albumina si coagulava e veniva a galla formando la ricotta; questa veniva lavata con il mestolo, messa in sacchetti di tela chiusi con i lacci e riposti a spurgare nelle mastèlle. La ricotta salata e affumicata veniva levata dai mastelli dopo un paio di giorni, messa in un piatto di legno, rimpastata con del sale e messa sotto la cappa del camino ad affumicare[3].
In Valtrompia molte di queste attività casearie sono ormai scomparse e solo grazie all’interesse della Comunità montana che mediante i suoi tecnici ha promosso corsi di formazione e tutelato con contributi la pratica dell’allevamento dei bovini, si è assistito ad un recente rifiorire di prodotti caseari tipici dell’alta valle, nonché alla riscoperta di due formaggi tipici ‘la formaggella di Valle Trompia’ e ‘il nostrano di Valle Trompia’ che sono stati di recente proposti per la denominazione di origine protetta.
Una delle più importanti occasioni di degustazione ci viene offerta dalla sagra del formaggio della Valle Trompia che ha luogo a Pezzaze dal 12 al 14 agosto, dove oltre che assistere alla produzione ‘in diretta’ del già citato ‘nostrano’ si possono degustare tanti altri prodotti dell’economia agricola locale.
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[1] http://www.scalve.it/museoschi/02allevamento.htm
[2] http://www.museoetnografico.it/l’arte_del_formaggio.htm
[3] http:/www.tremosinecultura.it/letradizioni/lavoro/caseificazionetradizionale/ricotta.htm